Da Picasso a Van Gogh

Storie di pittura dall'astrazione all'impressionismo. Capolavori dal Toledo Museum of Art

Treviso, Museo Santa Caterina
15 Novembre 2025 - 10 Maggio 2026

mostra a cura di
Marco Goldin

Treviso, Museo Santa Caterina

15 novembre 2025 - 10 maggio 2026

Capitoletti sull'Ohio
Marco Goldin

In primavera, quando le piogge sono finite e prima che vengano le lunghe giornate calde dell’estate, il paesaggio è delizioso. Il paese è in mezzo alla distesa dei prati ma dietro i prati ci sono i boschi. Nei boschi ci sono molti angoli appartati, luoghi tranquilli e ridenti dove gli innamorati vanno a starsene la domenica pomeriggio. Attraverso gli alberi si vedono i campi e i contadini al lavoro e la gente sulla strada. In paese suonano le campane e ogni tanto passa un treno che la distanza fa sembrare un giocattolo.

Sherwood Anderson, I racconti dell’Ohio
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Nel tempo felice della scoperta del mondo, in una mattina di primavera ho ascoltato per la prima volta nominare I racconti dell’Ohio. Per la prima volta nominare il suo autore, Sherwood Anderson. Già detti così sentivo che mi piacevano, perché avevano dentro il colore della luce, l’odore del vento quando passa attraverso un campo di grano. E il profumo di un sottobosco tutto fiorito.

Avevo vent’anni, frequentavo i miei primi corsi universitari e naturalmente non ero mai stato in Ohio. Il professore sembrava divagare, come piaceva a me. Quando si parte da una poesia e si arriva infine a un quadro, e si sente insieme il respiro della vita. Quella cosa che ogni tanto ti prende alla gola.
Paul Gauguin, Strada a Tahiti, 1891
olio su tela, cm 115,5 x 88,5
Acquistato con fondi del Libbey Endowment, dono di Edward Drummond Libbey, inv. 1939.82

Lo ascoltavo e pensavo all’Ohio, guardando oltre la vetrata il cielo chiaro di Venezia, con i gabbiani in volo e il colore scuro del Canal Grande tutto intersecato di barche. Spiccavano quelle cangianti dal rosso al verde della frutta. E poi le urla, i veneziani che si davano la voce da una riva all’altra, che salutavano chi passava. E noi studenti lassù, a far lezione in una mattina luminosa di maggio quando vorresti essere altrove, a camminare magari su una spiaggia davanti al mare.

In quell’altrove, in quel momento, in quella precisa mattina di maggio, era però entrato nella mia vita questo nome, l’Ohio. Il professore, un poco divagando ormai alla fine dell’anno, e poco prima della sessione inaugurale degli esami, indugiava sulla grande letteratura americana del Novecento, che in realtà non sarebbe stato l’argomento del corso monografico. Ma a me piaceva che si comportasse così. E parlando di Hemingway diceva che avremmo dovuto considerare il suo debito proprio nei confronti di Sherwood Anderson, specialmente il suo libro I racconti dell’Ohio.

Camille Pissarro, Contadine che si riposano, 1881
olio su tela, cm 81,3 x 65,4
Acquistato con fondi del Libbey Endowment, dono di Edward Drummond Libbey, inv. 1935.6
Tralascio il resto, che allungherebbe troppo questa storia, perché ciò che conta fu che quel pomeriggio, tornando a Treviso dall’università, andai subito in libreria e chiesi che mi venisse data una copia de I racconti dell’Ohio. Mi ci immersi per tutte le ore seguenti e alla sera avevo già concluso la lettura. Per me, che come tutti i ventenni dell’epoca amavo tanto lo Spoon River di Lee Masters – con l’indimenticabile suonatore Jones che Fabrizio De André aveva reso ancor più immortale nemmeno dieci anni prima –, fu tutto una scoperta. Quel libro era la somma di persone e paesaggi, di anime e viaggi impossibili. Amavo quel minimo apparente che diventava sconfinamento, distensione immensa dentro lo spazio.

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Poi per almeno quindici anni I racconti dell’Ohio sono diventati un ricordo, lasciato su uno degli scaffali della mia libreria. Fino a che cominciò ad accadere una cosa che al tempo dell’università non mi era parsa prevedibile. Alla voce professione, la carta d’identità diceva che svolgevo il seguente impiego: “critico di arte”. Mi muovevo tra i pittori del Novecento italiano, senza che questo, ovviamente, fosse ricordato in alcun modo in quel documento. Ma a un certo punto il mio campo d’azione, se così vogliamo definirlo, si allargò e cominciai a far diventare lavoro quello che continuavo a studiare e che amavo.

Insomma, la grande pittura internazionale del XIX e del XX secolo. Avevo iniziato a viaggiare un po’ in tutta Europa, dalla Russia alla Francia, visitando musei e collezioni da cui cercavo di avere in prestito le opere che a mano a mano venivano componendo le prime esposizioni internazionali che curavo.

Henri Matisse, Danzatrice che si riposa, 1940
olio su tela, cm 81,3 x 64,8
Dono di Mrs. C. Lockhart McKelvy, inv. 1947.54

All’inizio della primavera dell’anno 2000 decisi che era arrivato il momento di provare a varcare l’oceano Atlantico. Con un certo timore, sia detto. Mi stavo occupando di una mostra sulla nascita dell’impressionismo, molto vasta nel numero delle opere. La mia prima di autentico taglio storico internazionale. Così, con le poche conoscenze che avevo allora, fissai alcuni appuntamenti nei musei degli Stati Uniti, non più di tre o quattro.

Un paio a New York, quindi a Filadelfia e infine, prima di volare a Buenos Aires e a San Paolo, chissà perché scelsi di andare al Toledo Museum of Art, proprio nello stato dell’Ohio, sulla riva meridionale del lago Erie. Verificavo così le mie conoscenze di geografia, materia che a scuola mi aveva sempre appassionato molto e sulla quale gareggiavo spesso con mio fratello a chi ricordava più nomi di monti, fiumi, capitali di tutto il mondo. Anche se mi sforzo di tornare a quel momento, non riesco a mettere a fuoco il motivo per cui scelsi di recarmi lì e non piuttosto, che so, a Cincinnati o a Columbus. O magari a Detroit, dove sarei atterrato.

Pierre-Auguste Renoir, Vaso verde (jardinière), 1882
olio su tela, cm 92.7 x 67.9
Acquistato con fondi del Libbey Endowment, dono di Edward Drummond Libbey, inv. 1933.174

Naturalmente, pensai subito a quel libro che mi aveva accompagnato nel tempo universitario a Ca’ Foscari. Anzi, lo rispolverai nella sua edizione Einaudi per l’occasione, togliendolo dalla libreria per rileggerne alcune pagine, quasi a prepararmi sentimentalmente. Quello che segue è il racconto di come andò quel fine settimana d’inizio primavera a Toledo, nell’Ohio.

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L’agenzia che si occupava dei miei spostamenti mi aveva prenotato un volo da Filadelfia a Detroit, il venerdì mattina. L’appuntamento con il curatore del museo di Toledo era fissato per il pomeriggio e a dire il vero mi era stato espressamente chiesto se avrei voluto fermarmi in città per il fine settimana o non piuttosto passare il sabato e la domenica a Detroit, prima di riprendere un volo il lunedì mattina. Con la suggestione delle parole di Sherwood Anderson in testa, scelsi di trascorrere quei due giorni di riposo, nel mio primo viaggio americano, proprio a Toledo. In Ohio.

L’autista che mi aspettava all’aeroporto di Detroit mi portò in tre quarti d’ora a Toledo. Lasciata la valigia in albergo mi incamminai verso il museo, tra viali tranquilli in una zona che non era downtown. Avevo già messo a punto una mia tecnica, che consisteva nell’arrivare in un museo un paio d’ore prima della riunione per i prestiti, di modo da poter vedere con una certa calma tutte le sale con le opere ed eventualmente farmi venire altre idee rispetto a quelle con le quali ero arrivato. Un’idea utile a un provinciale come me.

Claude Monet, Ninfee, 1922 circa
olio su tela, cm 200,7 x 213,3
Acquistato con fondi del Libbey Endowment, dono di Edward Drummond Libbey, inv. 1981.54

Sapevo che il Toledo Museum of Art aveva una collezione straordinaria, e mentre passavo in rassegna così tanti capolavori sognavo di poterne avere in prestito alcuni per la mostra che avrei fatto di lì a pochi mesi a Treviso. Ma subito ritornavo in me e mi dicevo che non sarebbe stato possibile, sconosciuto com’ero per la curatela delle mostre internazionali e proponendo una città e una sede espositiva del tutto ignote nel panorama mondiale. Mi stupivo di come Toledo, non appartenente al circuito delle metropoli americane, avesse una collezione di un simile valore.

Venne il momento della riunione, e intimidito com’ero avevo deciso di puntare, parlando con il curatore, su un quadro il cui prestito pensavo avrebbe potuto essere meno impegnativo per il museo. Tuttavia era di sicuro perfetto per le sezioni che precedevano, nel percorso espositivo che avevo disegnato, la nascita dell’impressionismo. Gli spaccapietre di Jean François Millet – tra l’altro il pittore tanto amato da Van Gogh nella sua educazione sentimentale all’arte – divenne così il primo quadro in assoluto che un museo americano mi prestò. Per questo resta per me qualcosa di indimenticabile. Per questo me lo coccolavo nel mio sogno di quel momento e quando uscii dall’ufficio dove si era tenuta la riunione tornai nelle sale del museo per rivederlo. Per immaginare dove l’avrei collocato a Treviso.

Jean-François Millet, Gli spaccapietre, 1846-1847
olio su tela, cm 74 x 60
Dono di Arthur J. Secor, inv. 1922.45

Con un largo sorriso mi immersi nella luce chiara di un pomeriggio dell’Ohio che volgeva alla sua conclusione. Pensavo a Millet, pensavo a Van Gogh, alle mostre di Treviso che un paio d’anni prima avevano preso il via senza che nessuno potesse prevedere dove ci avrebbero condotto. Pensavo a Sherwood Anderson e alla letteratura americana dei grandi spazi, ne sentivo il fascino e il mistero. Quel rapporto dell’uomo con la natura perigliosa, lo sfregamento con il tempo, tutto quello che una ventina di anni prima avevo scoperto consumando e annotando le pagine di Il vecchio e il mare. A tutto questo pensavo mentre uscivo dal Toledo Museum of Art.

Poi i ricordi si sfumano un po’ in quel fine settimana in Ohio. Che ho passato a camminare, chilometri e chilometri ogni giorno, lungo un canale che partiva da una zona periferica della città. Si poteva stare alti su una riva erbosa e a mano a mano la campagna ti veniva incontro e riconoscevo, vent’anni dopo la lettura, le luci e gli spazi che Anderson aveva raccontato. Di tanto in tanto piccole voci, e il vento ancora freddo del principio della primavera, con il sole. Il lunedì mattina lasciai Toledo per dirigermi verso l’aeroporto a Detroit. Sono tornato da allora diverse volte in Ohio, ma non più a Toledo.