Ungaretti poeta e soldato

Il Carso e l’anima del mondo. Poesia pittura storia

Gorizia, Museo di Santa Chiara
26 Ottobre 2024 - 4 Maggio 2025

un progetto di
Marco Goldin

Gorizia, Museo di Santa Chiara

Monfalcone, Galleria comunale d’arte contemporanea

26 ottobre 2024 - 4 maggio 2025

Introduzione a questo Ungaretti.
L'uno e il due


Marco Goldin

Non so se la poesia possa definirsi. Credo e professo che sia indefinibile, e che essa si manifesti nel momento della nostra espressione, quando le cose che ci stanno più a cuore, che ci hanno agitato e tormentato di più nei nostri pensieri, che più a fondo appartengono alla ragione stessa della nostra vita, ci appaiono nella loro più umana verità; ma in una vibrazione che sembri quasi oltrepassare la forza dell’uomo, e non possa mai essere conquista né di tradizione né di studio, sebbene dell’una e dell’altro sia sostanzialmente chiamata a nutrirsi. La poesia è bene dunque un dono, come comunemente è ritenuta, o meglio, essa è il frutto d’un momento di grazia, cui non sia stata estranea, specie nelle lingue di vecchia cultura, una paziente, disperata sollecitazione.

Giuseppe Ungaretti, Indefinibile aspirazione (1947 1955)



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Ho sempre amato la poesia. L’ho pensata fin da ragazzo quasi come la sola forma di comunicazione. Ancor prima della pittura ha avvolto la mia vita, ne ha scandito tanti dei suoi momenti. Poi in me poesia e pittura sono diventate un’unica realtà, indissolubili nel loro essere, tutta intera, l’emozione dello stare al mondo. Non potrei pensare a una mostra di pittura senza poesia, non potrei pensare alla poesia senza la pittura.

Poi un giorno è successa una cosa. Sono entrato in un’aula universitaria a Ca’ Foscari, a Venezia. Mi preparavo a frequentare il primo corso monografico dopo gli anni del liceo. Letteratura italiana contemporanea. Era l’inizio di un nuovo viaggio, che a ben vedere, tanto tempo dopo, capisco quanto mi abbia condotto su strade preziose e fino ad allora non immaginabili.

Il professore è entrato nell’aula denominata Atti accademici, affacciata sul Canal Grande, in una bellissima giornata tersa del principio di novembre. Le lezioni cominciavano con l’aprirsi dell’autunno. Dal mio posto si vedevano le barche che andavano sull’acqua, si sentiva di tanto in tanto un grido come a richiamare l’attenzione di qualcuno. Ero intimorito. La mia prima lezione universitaria stava per cominciare. Non conoscevo chi mi era attorno. Riguardavo le barche, il mondo brulicante, sentivo il fruscio leggero della commozione di stare.

Il professore è entrato in quella grande aula e si è tolto il cappello, appoggiandolo sul tavolo. Si poteva ancora chiamarla cattedra, come al liceo? Forse no, mi son detto. Scrutavo i baffi bianchi di quel signore un po’ austero e un po’ bonario, era la mia prima impressione di lui. I baffi bianchi però striati di quel giallo che fa la nicotina quando fumi. Un giallo come negli affreschi di Pompei. O in un quadro annebbiato di Rothko.

Il professore ha estratto dalla sua borsa posata a terra un libro. Lo ha messo sul tavolo, con un atteggiamento insieme preciso e solenne. Si è seduto, ha alzato un momento il suo sguardo verso di noi – l’aula era quasi piena. C’era un grande silenzio. Poi ha abbassato gli occhi e ha guardato la copertina del libro, infine l’ha aperto. Avrei detto su una pagina a caso, come per guadagnare ancora qualche secondo. Lo ha richiuso e allora ho pensato: ecco, è arrivato il momento di cominciare.

Il professore si è alzato in piedi, uscendo dallo spazio tra la sedia e il tavolo, come a porsi in un più diretto contatto con gli studenti. Era sollevato rispetto a noi, poiché come sempre accade quella posizione era il punto di una certa distanza. Si è schiarito la voce, ha guardato lontano verso un luogo che non capivo quale fosse, c’era solo un muro in fondo, e infine per la prima volta ho sentito la sua voce: «Il corso di quest’anno sarà sulla poesia di Ungaretti, naturalmente cominceremo con Il porto sepolto».

E poi ha declamato questi versi, a memoria, facendoci sapere come si trattasse della poesia che dava il titolo a quell’esile libro, scritto nel tempo della guerra sul Carso:

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla d’inesauribile segreto


Già cominciavo a sognare, pensando a cosa fosse e soprattutto dove fosse quel porto sepolto. C’era da qualche parte sul fondale magari un bastimento segreto? Le acque erano chiare? Si poteva vedere il fondo? Mi piaceva così tanto l’immagine dell’inizio della poesia, il poeta che tornava alla luce – era la luce dell’Africa? – con le sue parole e le disperdeva. Ecco, questa cosa del lasciare andare la parola nello spazio dell’universo per un ventenne era manna dal cielo. Corrispondeva perfettamente allo spirito romantico che albergava in me e che cominciava allora a nutrirsi anche di pittura.
Il professore, con un lieve accento veneto colto, aveva declamato quella poesia con la sapienza dell’attore di un piccolo teatro di provincia. Un attore che piace di più così che non quello che vedi in un grande teatro di una grande città.

Eravamo in tanti in quell’aula, però ero riuscito a isolarmi e avevo sentito i raggi di una tiepida giornata di sole in autunno prendermi la pelle. Avevo ascoltato lo sciabordio della piccola risacca, favoleggiavo su chissà quale porto sepolto. Sentivo, anzi mi pareva perfino di aver capito, che quelle parole da qualche parte mi avrebbero condotto.

Il porto sepolto nella prima edizione del 1916

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Era quindi segnato nel mio libro delle ore che più di quarant’anni dopo tornassi a Ungaretti e alla sua limpida, denudata e arroventata poesia. Ci tornassi con questo progetto, fatto di due mostre e uno spettacolo teatrale. Ci tornassi tenendo tra le mani come un talismano il libro con Il porto sepolto e L’allegria, quel libro tutto annotato a matita che si è un poco sbiadita in tanti anni passati.

Su quel libro ci ho fatto l’esame alla fine del corso e poi l’ho sempre tenuto caro, vicino. Nel passaggio da una casa all’altra non volevo che mancasse mai quel riferimento, e qualche volta lo prendevo dalla biblioteca e cominciavo a leggere, ad alta voce.

Cosa che mi piace fare ancora oggi, scrivere e poi leggere ad alta voce. Anzi, spesso anche dettarmi quello che vado scrivendo. Come una cosa naturale, semplice. Ascoltare la parola, come a leggerla tra un silenzio e una voce. Per averne coscienza, perché impregni la vita.

Del resto, mi dicevo, la poesia si è ben costruita su questa oralità, già da Femio alla corte di Odisseo o Demodoco nella favolosa reggia dei Feaci alla corte di Alcinoo. Ungaretti era nato ad Alessandria d’Egitto, mi piaceva così tanto mescolare le antiche civiltà e la poesia a vincere su tutto. La poesia si poteva dire, anzi doveva essere detta, sembrava questa la sua forza maggiore.

Il tenente Ettore Serra

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Quando, per il programma di “Go! 2025”, ho per la prima volta proposto a Enzo Cainero questo progetto ungarettiano, tutto dentro di me veniva alla luce da quel lontano ricordo, ancora così vivo. Venezia, l’aula Atti accademici, il Canal Grande nella luce morbida dell’autunno, il professore che declamava Ungaretti.

Era come se un appuntamento a lungo rimandato si fosse d’improvviso rivelato possibile. Che gioia poter lavorare a lungo su questo poeta. Indagando, approfondendo, camminando sui sentieri che lui stesso aveva calpestato, magari mentre guardava le stelle la notte. Mentre attraverso il filo spinato si vedeva il lago di luce lunare sul mare. Chissà se riusciva a scorgere il Lago di Doberdò.

Da quella prima, quasi timida idea di mostra su Ungaretti, nata proprio avendo accanto Il porto sepolto, molte cose sono cambiate. La prima, la più importante, è che Enzo non c’è più, se n’è andato mentre il progetto cominciava a prendere più consistenza, ad assumere una connotazione più chiara in me. Per questo la dedica a lui di Ungaretti poeta e soldato. Il Carso e l’anima del mondo nasce dal cuore. Per questo nella prima pagina di questo libro il primo nome è il suo.

Aveva accolto con felicità il fatto che alcuni pittori italiani contemporanei potessero camminare nei luoghi del poeta sul Carso, per poi lavorare a riprodurre, con il linguaggio di oggi, così diverso in ognuno di loro, il paesaggio tanto cambiato dalla Prima guerra mondiale.

Alla fine il progetto si è composto non di una soltanto, ma di due esposizioni e uno spettacolo teatrale che le ha anticipate nella scorsa primavera. Per un senso di coralità. La mostra di Gorizia è un racconto delle vicende di Ungaretti sul Carso nei due anni della sua permanenza, dalla fine del 1915 alla fine, o quasi, del 1917, prima di andare in Francia. Un racconto dai molti linguaggi, tra poesia, storia, morfologia e pittura. Con un uso ampio di elementi visivi, tra documentari e altri approfondimenti appositamente creati.

La mostra di Monfalcone vuole dire, con una cinquantina di opere storiche, cosa accadeva in quello stesso decennio nelle Venezie, con le presenze degli artisti specialmente legati al movimento di Ca’ Pesaro, ma non solo se pensiamo soprattutto all’ambito triestino. I nomi che vanno da Boccioni ad Arturo Martini, da Gino Rossi a Casorati fanno capire quanto l’avanguardia italiana fosse di casa attorno al Carso in guerra. E anche a Monfalcone non mancano gli stessi dodici artisti contemporanei, con un paio di opere ciascuno.

E poi l’idea da cui è nato il titolo, Ungaretti poeta e soldato. In una lettera a Giovanni Papini, al tempo delle battaglie attorno al monte San Michele, Ungaretti si definisce «soldato ma poeta». Nel titolo ho scelto di invertire i due termini e far precedere il soldato dal poeta, poiché qui ogni cosa nasce dalla poesia, da quella poesia nuovissima, ripulita di tutto e vestita solo dell’essenziale, contenuta ne Il porto sepolto. La poesia in funzione taumaturgica, balsamo, ultima sillaba appesa al cielo, estremo silenzio lanciato dentro l’immenso. Preghiera, grido strozzato. Incanto.

E poi la sostituzione della congiunzione avversativa con una aggiuntiva, per avere noi oggi addosso come un mantello quel doppio ruolo ungarettiano tra le trincee della prima linea e la retrovia. Quel suo combattere e al tempo stesso scrivere, quel suo avanzare e ugualmente retrocedere. Quel suo essere insieme nella vita e nella morte. Condizione di fragilità e forza, condizione umana che sprigiona fuochi accesi nel buio della notte. Condizione di semplicità assoluta.